Torre di Federico
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CASTELLO DI FEDERICO (Enna)
Chiamato
per antica tradizione «Torre di Federico» fu per lunghi anni attribuito a
Federico II d’Aragona, mentre deve ritenersi edificato da Federico II di Svevia.
Esso è l’unica opera di tale sovrano che, in Sicilia porta il suo nome.
Dalla cima di una bassa collina domina la città e simbolicamente la Sicilia
tutta, dal cui centro si eleva. Vi si giunge per un bel viale attraverso il
parco che circonda il nudo piazzale, dove sarebbe già stato un precedente
castello abbattuto da El Abbas, nell’anno 850 circa.
L’austera nobiltà di questa grande torre ottagona (benché mancante dell’ultimo
piano che ne coronava l’edifizio, oggi è tuttavia alta più di 25 metri) non si
ritrova in Sicilia in altre costruzioni coeve.
Un’unica stretta porta ne consente l’accesso e la stanza al piano terra, che
prende luce da tre feritoie, rimane, come scrisse l’Agnello, «anche nelle
giornate luminose in una penombra che accresce la solennità del luogo».
Al centro di detta stanza una apertura circolare sarebbe stata l’ingresso di un
lungo sotterraneo che lo avrebbe collegato con il poderoso castello di
Lombardia.
Una bella scala a chiocciola, svolgentesi dentro le grosse mura, conduce ai
piani superiori ancora in buono stato di conservazione e con bellissime volte ad
ombrello, mentre l’elemento decorativo più interessante di tutto il castello
sono le due belle finestre del primo piano che con la loro architettura
“catalana” (in pieno contrasto col gotico dell’edificio) se, come sembra
accertato, furono create insieme al castello, avrebbero preceduto di ben due
secoli circa lo stile del rinascimento.
Cinto, in origine, di alte mura delle quali rimangono alcune guardiole (e che si
vuole racchiudessero un vasto complesso di costruzioni annesse), il castello nel
medio evo fu considerato come dimora regale il cui soggiorno era specialmente
preferito durante l’estate ed un diploma del tempo di rè Martino (1398) lo
appella infatti «regia domus».
La lunga storia di questo bellissimo edifizio fridericiano, oggi di proprietà
demaniali rimane tuttavia quasi interamente sconosciuta.
Durante la sollevazione del 1354, contro rè Federico III d’Aragona, sappiamo che
venne utilizzato quale sicuro rifugio dai partigiani del Chiaramonte.
Rè Martino poi ne creò castellano tale Filippo Polizzi che succedette ad Antonio
Grimaldi ed in seguito (1457) rè Alfonso V d’Aragona lo assegnò al cittadino
ennese Pietro Matrona, creandolo castellano, con tutti gli onori ed oneri della
carica, ma riservandosene i diritti reali.
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Castello di Montechiaro
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CASTELLO MONTECHIARO (Palma di Montechiaro)
Alto in superba solitudine, sopra un colle roccioso nella brughiera, è uno dei tanti
bei castelli chiaramontani ma il solo di essi edificato sul mare che si infrange sulla scogliera sottostante. Costruito da Federico Chiaramonte nel XIV sec., fu di grande importanza nella
storia della lotta contro i pirati.
Dopo la tragica morte di Andrea Chiaramente nel 1392 e relativa confisca di tutti i suoi beni, il castello pervenne a Guglielmo Raimondo Moncada e fu
chiamato “di Montechiaro” con una inversione di nome certamente dovuta
all’intento di cancellare anche il ricordo dei precedenti signori. In seguito lo ebbe Giovanni de Grixo ed alla sua morte, per concessione di rè
Martino (1400), Palmerio Caro alla cui famiglia rimase per oltre due secoli.
Verso il 1638 passò, per linea femminile, alla famiglia Tomasi un componente
della quale, Carlo Tornasi Caro, venne onorato da Filippo III di Sicilia, del
titolo di duca di Palma.
Questi, fattosi poi frate, cedette i suoi beni al fratello che fu anche il primo
principe di Lampedusa.
Ben poco di notevole rimane all’interno di questo castello nel quale si notano
caratteri catalani e successive opere del 1600 e che appare, da lungi, quale
fiabesca dimora. Assai interessante è la leggendaria storia della Madonnina che trovasi nella
cappella, venerata quale Maria di Montechiaro.
Di questa famosa statua, che il dotto studioso palmese G. Caputo attribuisce ad
opera di A. Gagini, si narra sia stata un tempo rapita dai vicini abitanti di Agrigento con i quali il popolo di Palma, andato a riprenderla, dovette
sostenere una furibonda lotta.
Da qui l’usanza di custodire gelosamente la Madonna affinchè non venga mai più sottratta alla sua gente e poiché ogni anno essa viene trasferita per un mese
nella cattedrale di Palma, durante il rituale trasporto è seguita da numerosi spari in memoria del bellicoso episodio. Ad avvalorare la tramandata preoccupazione popolare si vuole che già verso il
1553, al tempo in cui il famoso corsaro Drahut sacheggiava le coste di Sicilia,
questa Madonnina abbia subito un altro rapimento da parte dei turchi i quali
però sarebbero stati poi costretti a gettarla in mare, per un miracoloso straordinario aumento del suo peso, cosicchè i castellani del tempo poterono
recuperarla. Sul piedestallo della statua, di mirabile fattura si vede scolpito,
assieme a leggiadri serafini, lo stemma dei Caro inquartato, per reale privilegio, con quello d’Aragona.
Nel 1913 furono eseguiti al castello alcuni lavori di restauro che, come bene
auspica il Caputo, dovrebbero essere ripresi per salvarlo da completa,
inevitabile rovina. L’attuale proprietario, Giuseppe Tomasi Mastrogiovanni principe di Lampedusa, in
omaggio alla tradizione ed al sentimento popolare, assicura la costante vigilanza della sacra statuetta tuttora custodita nel castello.
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Castello di Biscari
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CASTELLO DI BISCARI (Acate – Ragusa)
«1424 = QUISTU CASTELLO ET SITO DI LA TERRA – FICHI FABBRICARI LU MAGNIFICU SIGNURI GUGLIELMU RAMUNDU LU CASTELLU – REGIUS MILES BARUNI DI LA DICTA TERRA ET DI LA FAVAROCTA».
Questa la lapide che figura nell’androne d’ingresso, assieme ad uno stemma composto di due draghi che sostengono un castello con tre torri. Nel lungo prospetto della bella e aristocratica dimora, sono due torri laterali di cui una mozzata da tremenda tempesta, non molti anni or sono. All’interno nulla più di notevole. Sul grande cortile quadrato due loggette ed una piccola «angoliera» quattrocentesca.
Nella cappella gentilizia, in un sarcofago dietro l’altare, è visibile un corpo che la leggenda vuole sia quello di S. Vincenzo martire il quale, partecipando ad una crociata, sarebbe stato ucciso nel sonno da un saraceno. Una principessa Biscari avrebbe, in seguito, fatto costruire il santuario per custodirvi il suo corpo, trasportato in Sicilia.
Altra versione, meno romanzata, narra invece di un Biscari morto santamente ed onorato con particolare devozione.
A Guglielmo Raimondo Castello subentrò il figlio Giovanni e attraverso altre dirette successioni, nel 1566 ne divenne proprietario Fernando Castello, signore di Biscari, che fu l’ultimo dei Castello.
Da questi, morto senza figli, per linea femminile, pervenne a Orazio Paterno, con la clausola di dovere egli assumere anche il cognome e lo stemma dei Castello (1578).
In seguito divenne proprietà di un ramo collaterale della famiglia e nel 1623 Agatino Paternò Castello ottenne da rè Filippo III di Sicilia, il titolo di principe ed ebbe, per un certo periodo, le funzioni di viceré nella Valle di Noto.
Dopo successivi passaggi ereditari, (va ricordata la figura di Ignazio II, illustre studioso che donò alla sua Catania un ricco museo di rarità antiche) il castello, ricostruito dopo il terremoto del 1693- fu proprietà del principe di Biscari Roberto Paterno Castello Valery.
Oggi, una parte è ancora proprietà della famiglia Biscari mentre l’altra metà appartiene ai marchesi Raddusa.
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Castello Noce
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CASTELLO NOCE (Caltagirone – Catania)
Non conosciamo le origini di questo castello (un tempo posto al centro di un vasto territorio feudale) del quale rimane la torre del XV secolo. E nulla sappiamo della sua storia fino a quando verso il 1700 i proprietari del tempo, baroni
Chiarandà di Friddani, non aggiunsero alla torre un edifizio attiguo per loro
comoda abitazione. Esso presenta, nelle belle loggette e negli affreschi, le caratteristiche
dell’epoca e Michele Chiarandà, dopo averne curato personalmente ogni dettaglio,
amava alternare ai suoi lunghi soggiorni in Francia brevi e riposanti parentesi
in questa signorile dimora. Di questo signore si racconta che durante la rivoluzione sanfedista del 1789,
essendo sospetto di infedeltà al rè a causa della sua amicizia con la Francia, venne perseguitato e costretto a sostenere un breve assedio da parte del popolo
capeggiato da tale Marronchio. Rinchiuso nella torre egli tenne testa ai suoi assalitori ma infine fu costretto
a fuggire attraverso un sotterraneo del castello e, raggiunto poi il mare, si pose in salvo nella sua carissima Francia.
Poco chiara la figura di questo italiano del quale è nota la grande amicizia con Napoleone III.
Nel 1861 il castello fu acquistato da Giuseppe Milazzo, signore caltagironese,
ed il suo discendente On. Silvio Milazzo, attuale proprietario, ne cura i pregevoli restauri con quell’amore che tutti i siciliani dovrebbero avere per
queste loro antiche dimore.
Oggi, nel suo armonioso insieme, con la bella terrazza alla sommità della torre e circondati dal verde intenso di una folta vegetazione (tanto più suggestiva dell’elegante e curato giardino di un tempo cinto di alte mura merlate e con colonne a sostegno delle caratteristiche pergole) il «Noce» ci appare quale delizioso luogo di soggiorno e di pace.
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Castello di Falconara
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CASTELLO DI FALCONARA (Falconara – Caltanissetta)
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Castello di Augusta
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CASTELLO DI AUGUSTA (Augusta – Siracusa)
Costruito
da Riccardo da Lentini per Federico II di Svevia, il castello, che presenta oggi
l’aspetto di grande caserma, conserva (in mezzo al complesso di nuovi
fabbricati) parte di una preesistente torre del tempo normanno.
A ricordo della sua fondazione sembra che in origine vi fosse la seguente
iscrizione così decifrata da storici locali:
«AUGUSTAM DIVUS AUGUSTUS CONDIDIT URBEM ET TULIT, UT TITOLO SIT VENERANDA SUO,
THEUTONICA FRIDERICUS EAM DE PROLE SECUNDUS, DOTAVIT POPULO, FINIBUS, ARCE,
LOCO».
Secondo una antica leggenda Federico, verso il 1229, spinto da una violenta
tempesta, trovò rifugio con il suo battello nella rada di Augusta ed incantato
della bellezza del luogo, progettò di crearvici una dimora che fece poi
edificare attorno all’antica torre di difesa.
Il poderoso castello, che fu tra i più importanti dei grandi monumenti
fridericiani, dopo avere ospitato l’augusto imperatore, vide anche quel Giovanni
di Cocleria che osava spacciarsi per Federico stesso.
Con l’avvento angioino il mastio cadde in mano del sanguinario Guglielmo
Estendard il quale vi compì ripetute stragi.
Nella rivoluzione dei Vespri il popolo scacciò il presidio francese ed invase il
castello saccheggiandolo. Successivamente, con la elezione di rè Pietro, vi si
innalzò la bandiera d’Aragona (1282).
Dopo alcuni anni Rinaldo del Balzo, con audace colpo di mano, si impadronì del
castello ed i francesi tornarono ad insediarvisi ma nel 1287, dopo un lungo
assedio, furono costretti ad arrendersi a Ruggiero di Lauria e Giacomo
d’Aragona.
In seguito esso venne strenuamente difeso dall’eroico Blasco Alagona che riuscì
a sventare una nuova insidia angioina.
Nel 1378 il castello divenne asilo e prigione di Maria d’Aragona.
La giovanissima fanciulla infatti, unica erede del regno di Sicilia, che veniva
custodita dal reggente Artale Alagona nel castello Ursino di Catania, venne
rapita e quivi rinchiusa da Guglielmo Raimondo Moncada conte di Augusta, al fine
di sottrarla alle mire politiche dell’Alagona.
Questi, per riprenderla, assediò il castello ma fu costretto a desistere
dall’arrivo della flotta aragonese. Attraverso altre vicende la giovane regina
andò poi sposa in Aragona a Martino, figlio del duca di Montblanc.
Nella seconda metà del 1500, a difesa degli angoli del castello, vennero eretti
quattro bastioni chiamati S. Filippo, S. Giacomo, Vigliena, S. Bartolomeo.
In quell’epoca si procedette al taglio dell’istmo ed il chersoneso divenne una
piccola isola congiunta alla terra da un ponte.
Nel
1675 un audace tentativo della flotta di Luigi XIV ridiede ai francesi il
castello (mal difeso dagli spagnoli) ma la tenace opposizione trovata in Sicilia
li costrinse a rinunziarvi e il generale Le Feuillade, prima di abbandonarlo,
tentò distruggerlo.
Ingenti furono i danni subiti e tré anni dopo, sotto il regno di Carlo II, il
viceré di Sicilia Benavides conte di S. Stefano si rivolse ai cittadini per
poterlo restaurare. Ottenne un cospicuo aiuto (trentamila scudi) ed il castello
potè così risorgere a nuova vita.
Sulla porta del grosso muragliene di cinta, chiamata «spagnola», in mezzo a tré
grandi stemmi, una lapide ne ricorda il lavori con la data: MDCXXCI.
Il terremoto del 1693 danneggiò gravemente il castello ed in seguito lo scoppio
di una polveriera provocò un violento incendio, mentre il crollo di una
parte di esso seppellì il castellano con la sua famiglia e quaranta monache che
vi si erano rifugiate.
Il viceré Francesco Giudica, nel 1700, ne curò il ripristino e vi trascorsero
senza rilievo i successivi anni fino alla unificazione del regno d’Italia.
Dal 1890 è destinato a pasa di pena ed oggi quasi nulla si scorge, all’interno,
delle prime strutture.
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Castello di Brolo
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CASTELLO DI BROLO (Brolo – Messina)
Era
anticamente in quel luogo, secondo il Pirri, una vecchia torre chiamata “Voab”
su di essa vi sarebbe stato, intomo al 1094, un privilegio del gran conte
Ruggiero.
II grande castello che si vuole edificato al tempo di Federico II di Svevia,
spiccava, dalla altura rocciosa in riva al mare su tutta la bellissima conca
oggi ricca di ulivi e di agrumeti. Esso venne più volte restaurato ed arricchito
dalla illustre famiglia Lancia della quale una donna, Bianca (o Beatrice), fu
madre di re Manfredi di Svevia.
I Lancia che sin dal X sec. vantavano illustri progenitori (il primo a portarne
il nome fu Manfredi, già marchese di Busca e conte di Loreto, poiché «lancifero»
dell’imperatore, Federico Barbarossa) ebbero poi, nel 1686, il titolo di duca
dal re Carlo II.
Sul 1392, in seguito alla ribellione di tale famiglia, rè Martino confiscò il
castello ma sucessivamente re Alfonso d’Aragona, in segno di gratitudine per
servigi prestatigli, lo rese a Pietro Lancia (1435 circa) e nel XVI secolo ne fu
signore Girolamo Lancia Gaetani XIX marchese di Brolo, che lo ereditò assieme
alle baronie di Ficarra, Galati e Piraino.
Il giovane Girolamo, prode e gioviale, era solito dimorare a lungo in questa sua
prediletta residenza e di lui si narrano episodi ed imprese, tutti legati alla
storia del castello.
Durò a lungo vivo il ricordo, tra tanti altri, di uno scherzo che egli fece a
due padri missionari. Accolti al castello con grande rispetto e cortesia, il
Lancia li costrinse però a soggiornarvi molti giorni, nutrendoli sempre di fave,
variamente cucinate, per punirli di avere essi rifiutato, il primo giorno, tale
pietanza. Li congedò infine, amabilmente, dicendosi felice per averli abituati
ad un cibo «che tanto si addiceva alla astinenza del loro ministero».
Di
ben altra natura invece è la seguente impresa che fu di decisiva influenza sulla
sua vita.
Mentre, dilettandosi di pesca, si trovava con la sua barca molto lontano dal
castello, venne attorniato dalle galere di pirati turchi che effettuavano le
loro scorribande lungo le coste di Sicilia, al comando di Kair-ed-din, detto
Barbarossa per la folta barba rossiccia. Catturato da Oruccio (fratello del
Barbarossa) e condotto in Berberia, vi rimase prigioniero per circa tre anni
finché, secondo le leggi feudali dell’epoca, i suoi vassalli pagarono il prezzo
di diecimila scudi per il riscatto.
Il Lancia umiliato da questa avventura, avido di vendetta, armate due galere
drizzò le prore verso la costa nemica.
Ivi giunto camuffato da ricco mercante e truccandosi il volto con barba
posticcia, imitando in tutto la foggia barberesca, con sottile astuzia riuscì a
persuadere la moglie e la figlia del Barbarossa a recarsi sulle navi per
visitare le sue mercanzie.Avutale a bordo spiegò le vele, conducendole
prigioniere al castello di Brolo, dove esse vennero ospitate con gran
galanteria.
Narrasi che la fanciulla, ricevuto il battesimo, si sia innamorata del giovane
Lancia ed abbia avuto da lui diversi figli i quali, in seguito, avrebbero
costituito un altro ramo della famiglia Lancia che, per distinguerlo da quello
di Brolo, fu detto «delle Lance rotte e spezzate» o “delle Barberosse”.
Nei primi del 1600 il castello fu venduto a Michele Spadafora marchese della
Roccella ma poi ricomprato, tornò alla casa Lancia dalla quale pervenne ad
Ignazio Vincenzo Abate Marchese di Lungarini, che lo acquistò ad asta pubblica,
verso la metà del 1700. Successivamente fu della famiglia Musto che ottenne
anche il titolo di marchese di Lungarini e signore di Brolo (1901). Comprato poi
dalla famiglia Milio fu da questa venduto all’attuale proprietario On. Antonino
Germana.
Di tutto il complesso edilizio che costituiva il sontuoso castello rimane
soltanto la grande torre quadrata che ne era centro e parte preminente.
Il vano inferiore della detta torre era destinato alla guardia e da esso,
attraverso una botola, per un passaggio sotterraneo era possibile l’eventuale
fuga fino al mare che anticamente ne lambiva la roccia sottostante. Una scala a
chiocciola conduce all’unica altissima sala, con bella volta a crociera, e alla
soprastante terrazza, cinta da merlatura bifora. Sull’arco della porta, in un
avanzo del muragliene di cinta del castello figura tuttora una rettangolare
lastra di marmo con quattro stemmi e sopra altra porta di un secondo ordine di
antiche mura che un tempo ne recingeva la parte centrale, un bellissimo scudo,
anch’esso di marmo, con lo stemma dei Lancia (un leone rampante) e l’iscrizione:
«PRINCIPALIOR OMNIUM»
Questo orgoglioso motto riferivasi al diploma di rè Martino che
nel 1404, confermando a Blasco Lancia il possedimento di Longi, dichiarava il
casato dei Lancia di Brolo:
«PRINCIPALIOR ET MAJOR DE DOMO LANCEAE».
Durante l’ultima grande guerra, cannonate dal mare aprirono una
larga breccia nella bella torre, che pure, ad onore dell’antico suo motto,
resiste ancora alta e superba.
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